2004 – LA 3 RIFUGI ESISTE, RESISTE ED INSISTE – GIORGIO PITTAU: STORIA E RISCATTO DI UN IMPIEGATO

Nonostante gli evidenti acciacchi della vecchiaia la Tre Rifugi prova a resistere ai nuovi più accattivanti cliché che popolano il mondo dei corridori dei monti, moltiplicati nei numeri, dotati dei moderni confort tecnologici e oggetto di appellativi altisonanti quali Skyrunner, Finisher, Geant e quant’altro. In fondo i sentieri sono sempre gli stessi e la fatica uguale a quella che percorrevano, quando tutto ebbe origine, i semplici marciatori alpini.

Rimane la classica “Gara di Corsa in Montagna a cronometro per coppie di atleti” insensibile ai richiami delle sirene moderniste. Anche la salita al Pra al cospetto del Rifugio Jervis e Ciabota permane, salvo rare ed autorizzate eccezioni, accessibile a piedi come da tradizione oramai trentennale. Alcuni atleti rumoreggiano e implorano permessi speciali legati a “seri motivi” che consigliano la salita in auto: il figlio piccolo, la mamma anziana, la moglie pigra, l’amante pretenziosa sono le causali più utilizzate per ottenere pietà, umana comprensione e conseguente permesso dagli organizzatori. Persino il servizio radio moltiplica le postazioni pur di ottenere altrettanti permessi da utilizzare per allestire, non sempre a gara conclusa, luculliani picnic.

Settanta coppie salgono, con mezzi legali ed in alcuni casi truffaldini, al cospetto dei Crin ‘d Puluc: la partecipazione sembra premiare il conservatorismo degli organizzatori anche se la provenienza degli atleti è sempre più ristretta al livello locale. Fanno eccezione i valdostani del Monte Rosa (Parisio e Morello), le campionesse canavesane Ornella Bosco e Raffaella Miravalle e gli amici del Gruppo Sportivo Città di Genova in fuga dalle affollate spiagge liguri.

Il matrimonio Bert – Lasina celebra il quarto anniversario comprendente tre vittorie consecutive mentre le Canavesane Bosco e Miravalle fanno il botto cronometrico (2.50’36”) senza scalfire, tuttavia, il record vigente di Priotti – Pesando (2.46’47”).

***

Dalla metropolitana Moncalieri era immigrato, in quel di Pinerolo, Giorgio Pittau sempre incerto su dove condurre la sua itinerante esistenza. In fondo si trattava di un avvicinamento alle (mezze) origini essendo, il nostro, un raro rappresentante della razza sardoccitana.

Il ritorno in provincia era dovuto a motivi di lavoro essendo impiegato presso l’Ente Nazionale di Energia Elettrica che scritto integralmente pare sottrarsi alle dozzinali e profondamente ingiuste battute sull’ossimoro insito nei termini “Enel – Lavoro”. Io stesso ne sono stato testimone delle persecutorie affermazioni che segnalavano, non senza perfida ironia, la consuetudine che alla base dei pali della luce sostassero, di norma, 4 operai mentre uno solo era impegnato nelle fatiche lavorative sulla cima: a nulla valeva fare notare al popolo dileggiatore l’impossibilità di salire in cinque al vertice del suddetto palo causa le sue ridotte dimensioni.

L’ “impiegato” Giorgio Pittau proveniva da una Sede Centrale dell’Azienda dove, tradizionalmente, esistevano alti inquadramenti, in parte reali e di in parte farlocchi, circondati, entrambi, da bellissime segretarie. In periferia, si sa, sono relegati gli operativi, coloro fanno girare l’Azienda con scarso riconoscimento economico e morale. Non mancano, certo, le belle segretarie, ma i più sono rudi operativi infastiditi dalle presunte competenze di un giovane impiegato.

L’arrivo di Giorgio a Pinerolo venne osteggiato sia per i motivi sopra citati e sia perché “parla pà piemunteis” e… “l’è pà di nosti”. La cosa non lo sorprendeva date le sue conoscenze di usi e costumi locali causa una mamma di origini bobbiesi…

Già, Bobbio Pellice, la patria della mitica Tre Rifugi…

T’ses mat?” la insistente richiesta semi affermativa proveniva dal cortile aziendale; a pronunciarla, sicuramente al suo indirizzo, una voce che appariva, in questa occasione, stranamente amica o, perlomeno, meno scontrosa. Lì per lì non capiva di cosa parlasse. Che di motivi per dargli ragione circa la sua sanità mentale ne aveva più di uno, ma nulla che avesse potuto determinare l’inattesa ventata di gentilezza.

O… forse sì!

Era successo che la nascita del suo secondo figlio lo aveva definitivamente allontanato dal vecchio sport che imponeva luoghi e orari fissi dandosi, nei ritagli di tempo, alla corsa riuscendo a concludere bene anche una maratona.

E quale ulteriore sviluppo podistico poteva mai esserci per uno fissato di montagna? Cresciuto coi racconti di mamma che, bambina insieme al papà messo comunale, andava di alpeggio in alpeggio a contare le bestie, spensierata ospite di pastori e margari di una Val Pellice dell’immediato dopoguerra.

Per non parlare di quelli della nonna, riluttante ad accontentare la sua fantasia infuocata dagli incredibili momenti di puro terrore durante la Resistenza in valle.

Se non avete la risposta è perché siete foresti.

Si, la notizia della sua prima Tre Rifugi s’era diffusa e qualcosa era cambiato nei rapporti con i colleghi. Continuava a fare un lavoro ritenuto, dai più, inutile ma talvolta qualcuno si rivolgeva a lui con un cordiale “Cume a l’è?” massima espressione di inclusività aziendale.

Il tempo trascorso dall’esordio alla Tre Rifugi non lo misura oramai in decenni ma sia per i colleghi in pensione che per i nuovi arrivati continua ad essere “Quello che ha fatto la Tre Rifugi!”; sempre un gran rompiscatole ma… “L’è di nosti!”

 

Carlo Degio

 

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